Una "presunta" lettera di risposta al Ministro della Difesa.
Roma -
Siamo i dipendenti civili del Ministero della Difesa.
Ci permettiamo di rivolgerci a Lei direttamente perché siamo convinti che la riforma dello strumento militare deve necessariamente tenere conto degli aspetti e delle problematiche che coinvolgono il personale civile del suo dicastero.
Il programma di riforma illustratoci è indirizzato ad una gestione dei fondi della Difesa che prevede la razionalizzazione o l’unificazione di comandi, enti e strutture legate alla logistica, alla formazione ed all’amministrazione specialmente dove queste sono analoghe tra Esercito, Aeronautica e Marina, con la conseguente progressiva riduzione del personale e la richiesta di maggiore efficienza/produttività dei dipendenti.
Pur non essendo degli economisti, ci permettiamo di rappresentarle alcune riflessioni nonché considerazioni sviluppate dal confronto del suo scritto con la lettura di alcuni documenti pubblici e dall’esperienza maturata nel settore.
Nella sua lettera, si afferma che le spese militari in Italia sarebbero il 0,90 per cento del PIL contro una media UE del 1,61 per cento e che di queste il 70% è destinata alla retribuzione del personale.
Questi numeri non ci sono nuovi, ma ci permetta di rappresentarle che è la NATO a smentire questi affermazione, nel suo report “Financial and Economic Data Relating to NATO Defence” pubblicato il 10 marzo 2011 e accessibile a chiunque, dove confronta la spesa militare dei paesi che partecipano all’Alleanza Atlantica dal 1990 al 2010.
I dati per l’anno 2010 confermano che la spesa militare in Italia in rapporto al PIL, escludendo la quota destinata all’Arma dei Carabinieri, non è la più bassa dell’UE.
Non solo è maggiore del “magico” 0,9%, ma è superiore al dato di Germania e Spagna.
Francia e Regno Unito spendono di più dell’Italia, ma non possiamo dimenticare che questi paesi, oltre ad essere membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, hanno propri arsenali nucleari i cui costi di semplice mantenimento e messa in sicurezza sono enormemente alti.
L’Italia è al 1,4%, come la Germania e più della Spagna (1,1%), mentre la media NATO dei paesi europei è al 1,7%, di poco superiore a quella italiana.
Inoltre, l’Italia è uno dei paesi europei che meno hanno ridotto il peso delle spese militari in rapporto al PIL nell’arco di venti anni: in Francia questo rapporto si è ridotto del 30%, in Germania del 38%, in Grecia del 28%, nel Regno Unito del 32%, in Spagna del 25%, mentre in Italia del 20%.
Se permangono dei dubbi sulla fonte, consigliamo di verificare il sito della Central Intelligence Agency dove, nella sua pubblicazione “The World Factbook”, è presente l’elenco della spesa militare di ciascun paese (non solo NATO) in rapporto al proprio PIL, dove risulta che l’Italia spende l’1,8% del proprio PIL.
Il dato curioso è che, mentre i valori per molti paesi sono aggiornati al 2009, quello dell’Italia è fermo al 2006.
La differenza di stima tra questi due soggetti è da attribuire al fatto che dal 2007 la NATO non abbia più considerato le spese per l’Arma dei Carabinieri.
Scelta alquanto discutibile fintanto che quest’ultima dipenderà dal Ministero della Difesa e sarà impiegata in scenari internazionali, come i contingenti di Esercito, Marina e Aeronautica.
Ci permettiamo di esternarle il dubbio che la dichiarazione delle spese militari in Italia al solo 0,90% è il risultato di una modificazione contabile che sottrae dal calcolo le voci del bilancio del Ministero della Difesa destinate alle pensioni e agli accantonamenti obbligatori, alle funzioni esterne e all’Arma dei Carabinieri (in totale più di un terzo del budget).
Nello stesso tempo non computa né il fondo per le missioni internazionali ascritte in bilancio al Ministero dell’Economia e Finanze (1,640 miliardi di euro nel 2011), né i fondi ascritti al Ministero dello Sviluppo Economico per finanziare programmi di nuovi sistemi d’arma (2,248 miliardi di euro nel 2011).
Lo 0,9% del PIL corrisponde, quindi, solo alle spese di personale, esercizio e investimento a bilancio del Ministero della Difesa, mentre le spese - pur espressamente militari - sostenute da altri dicasteri non sono calcolate.
Pertanto, il bilancio della Difesa per il 2012 va oltre i 23 miliardi di euro:
per la funzione difesa, riferita alle tre armi - Esercito, Marina e Aeronautica - sono stanziati 14.111 milioni di euro;
per la funzione sicurezza del territorio (Carabinieri) 5.850 milioni di euro;
per le missioni all’estero e gli stanziamenti del Ministero dello Sviluppo economico per l’acquisto dei vari sistemi d’arma, dagli aerei da combattimento alle fregate per la restante parte.
Dall’analisi dell’aspetto economico sul quale si basa l’azione della riforma, tra le ragioni troviamo la necessità di diminuire l’eccessivo costo della spesa del personale (attualmente al 70% del capitolo) dove il personale militare incide sullo stanziamento per 9.462,3 milioni di euro (pari al 56%) mentre quella del personale civile per il 9,8%.
Molte delle sue esternazioni pubbliche hanno riguardato il necessario taglio del 20 per cento degli organici che fanno capo alla Difesa, passando da 183 mila a 150 mila militari e da 30 mila a 20 mila civili.
Il previsto taglio di 10.000 lavoratori civili, seppur nell’arco di 10 anni con l’utilizzo della mobilità interna/esterna e del part-time come misura di garanzia assistita, risalta come il contributo della componente civile per la soluzione di un problema economico.
L’esclusione di questo personale dal dicastero della Difesa è una scelta politica grave, mirata al progressivo spostamento delle funzioni proprie da questa componente a quella militare e privata.
Si rende necessario ricordare che il taglio complessivo di 11.500 posti in organico nell’ultimo triennio è stato un tributo molto pesante, il massimo che si poteva chiedere alla componente civile che ha, come riflesso, un maggior carico di lavoro e di responsabilità.
Riteniamo per esperienza che le risorse ricavate con il taglio di una parte del personale andranno solamente a coprire le maggiori spese previste per l'esercizio (formazione e manutenzione) ed investimento (sistemi d'arma).
Il riequilibrio tra i costi del personale e le altre voci di spesa militare riteniamo non si configurerà come un dimagrimento dei fondi che lo Stato spende in questo comparto ma un vantaggio automatico e forte per l'industria a produzione militare e un assegno in bianco pronto ogni anno per pagare scelte di acquisizione di sistemi d'arma che una volta fatte vincoleranno il nostro Paese per decenni.
Sul bilancio dello Stato, al momento, incombono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d'arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026.
Da un lato c'è un comparto già fortemente penalizzato dal punto di vista dei tagli alle risorse, degli stipendi del personale, della formazione, dell'addestramento e dell'esercizio, dall'altro non c'è il minimo intento di diminuire le ingenti spese militari.
Ebbene, per quanto rappresentato sopra, sorge il dubbio che la Difesa spenda troppo e male, che sprechi ancora di più, che il progetto di ricavare risorse dal taglio di posti di lavoro sia più una condanna che una necessità.
Crediamo fermamente sia arrivata l’ora di spendere meno e meglio, ma soprattutto bisogna spendere dopo essersi chiariti bene le idee su da chi e da cosa siamo minacciati e di quale sicurezza stiamo parlando.
Il mettere a fuoco i pericoli che il Paese corre, le strategie necessarie a contrastarli, lo strumento militare adeguato ai tempi e le spese necessarie a fare il tutto, in un termine riassuntivo “modello di difesa”, non è certo compito nostro ma dovrebbe occuparsene il Parlamento, che invece ci sembra fin qui esautorato dalla funzione di indirizzo politico.
Certamente sarebbe necessario ed opportuno un serio dibattito e il necessario confronto in Parlamento.
A fronte di questo, è stato posto in grande risalto la necessità di una adeguata formazione del personale, considerata di vitale importanza per il raggiungimento di maggiore professionalità ed efficienza dei dipendenti civili in un quadro di un crescente impiego di tecnologia avanzata.
Un enunciato divenuto tradizione della politica del dicastero negli ultimi quindici anni di storia, rimasto tale con la conseguenza di una continua esternalizzazione dei servizi e, quindi, delle funzioni svolte generalmente dal personale civile.
A questo si aggiunga la fantasiosa teoria, divenuta costante pratica, del minor costo delle lavorazioni effettuate in esterno dal privato, come del processo di civilizzazione del dicastero rimasto, appunto, solo un enunciato.
Le richieste dei lavoratori civili della Difesa sono state sempre disattese, trovando come risposta dei fallaci aggiustamenti di facciata anziché reali e concrete soluzioni.
Ora che tali problemi vengono velatamente riconosciuti, forse più per obbligo congiunturale che per convinzione profonda, la risposta fornita non entra nella sostanza delle questioni ma continua ad attribuire le responsabilità dei costi al personale civile.
Il contenimento delle spese incide solo sulla pelle delle persone e non tocca gli sprechi e le tasche di chi permette tutto questo?
Bisognava intervenire già da tempo questa tendenza perchè nel bilancio della Difesa ci sono tantissimi soldi pubblici e quello che non si è voluto fare ieri, bisogna farlo oggi con scelte drastiche.
Il personale civile della Difesa non potrà mai concordare su questo aspetto della riforma dello strumento militare poiché impone effetti penalizzanti in termini di salario e di perdita del posto di lavoro.
Sarebbe necessario intervenire per:
la piena attuazione, attraverso idonei e veri strumenti operativi, del processo di valorizzazione professionale del personale civile di tutte le aree del Dicastero;
il trasferimento delle conoscenze e delle abilità operative del personale a nuove assunzioni o a figure professionali avviate con accordi territoriali di formazione;
l’internalizzazione delle lavorazioni anche in collaborazione con soggetti privati "adeguati" laddove sia necessaria una pronta risposta di natura operativa;
avviare un percorso che punti a finanziamenti selettivi attraverso i quali si definiscano le priorità e le reali necessità del settore, investire minori risorse ma meglio mirate;
rivedere il quadro complessivo delle spese militari prevedendo una razionalizzazione delle risorse e destinando parte di quelle stanziate per armamenti alla formazione, addestramento e riqualificazione del personale del dicastero.